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Salute&benessere: Vuoi sentirti meglio? Allungati, ma con criterio!!

A cura della dott.ssa Valentina Contrò
È credenza comune, eccetto forse per ginnasti, ballerini o artisti marziali, che lo stretching sia sinonimo di “defaticamento” o peggio, di “ginnastica dolce”.
Beh, chiedetelo a Yuri Chechi. Chiedetelo a Simone Biles. O a chiunque si stia approcciando a delle skills che richiedono, oltre che dosi ciclopiche di forza, estrema flessibilità.
Sicuramente, vedendo associata la parola “stretching” a “blando” vi risponderebbero con una grassa risata. Eppure, nell’immaginario collettivo, da sempre questa pratica si correla a qualcosa di spicciolo e marginale, giusto due-tre minutini (bene che vada) alla fine della corsetta domenicale o della lezione di Total body in palestra e non è mai pensata come qualcosa di anche lontanamente brutale.
Bene, oggi cercherò di fare chiarezza insieme a voi lettori e di dare un nome e una giusta collocazione alle cose.
Di tipologie di stretching ne andrebbero citate tante, anzi tantissime: balistico, PNF, contrai-rilascia… La lista è molto lunga e premetto già che ognuna di queste pratiche può risultare molto valida a seconda dell’obiettivo che si vuole raggiungere. Oggi cercheremo di semplificare al massimo la faccenda e ci limiteremo a parlare di due macro categorie: lo stretching passivo e lo stretching attivo.
Immaginiamo di stenderci a terra, supini, di avvolgere un piede con una cinghia tenuta tra le mani e di portare la gamba distesa verso la nostra testa: stiamo applicando una forza esterna a dei muscoli rilassati, provando a guadagnare PASSIVAMENTE sul nostro ROM, range of movement (o ampiezza del movimento articolare, ndr).
Adesso, dalla medesima posizione, pensiamo di lasciare andare la cinghia che avevamo tra le mani e di portare ATTIVAMENTE la nostra gamba tesa verso la testa: stiamo ingaggiando e contraendo un gruppo muscolare (agonista) per consentire ad un altro (antagonista) di rilasciarsi, esprimendo forza al limite del ROM.
Di certo entrambe le tipologie sono utili al fine ultimo (l’allungamento di un determinato gruppo muscolare), tuttavia, lo stretching attivo risulta essere migliore in termini di efficacia a lungo termine. Infatti, abituare un muscolo ad esprimere forza in range di movimento sempre più ampi consente di mantenere solidità nel gesto motorio, di prevenire infortuni sollecitando gradualmente l’articolazione e di potere, con il tempo, mantenere la flessibilità guadagnata anche “a freddo”.
A proposito: dove collocare lo stretching in una sessione di allenamento?
In linea generale, lo stretching attivo è ottimo se inserito all’inizio del workout, mentre il passivo (fatto bene, con il giusto posizionamento dei segmenti corporei e con le giuste tempistiche) è da prediligere alla fine. L’allenamento della flessibilità è graduale e va ovviamente inserito in un contesto più ampio, tenendo conto degli altri allenamenti settimanali, tuttavia la costanza premia e il guadagno ottenuto, soprattutto con lo stretching attivo sarà strutturato e duraturo.

Fonte biosportinglab.it

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Scritto da su set 20 2020. Archiviato come ARCHIVIO ARTICOLI, IN EVIDENZA, Salute & benessere. Puoi seguire tutti i commenti di questo articolo via RSS 2.0. Salta e vai alla fine per lasciare una risposta. Pinging non è attualmente consentito

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